Cessione del contratto di affitto d’azienda
In caso di cessione del contratto di affitto d’azienda, il nuovo conduttore non è tenuto a pagare i canoni dovuti dal suo predecessore moroso. Lo ha chiarito il Tribunale di Milano che, nella sua sentenza, giunge a conclusioni diverse rispetto a quelle precisate dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10485 del 2004.
Nell’affitto di azienda, il conduttore può cedere il contratto di locazione insieme all’azienda senza il consenso del locatore, ma quest’ultimo può decidere di non liberarlo; quindi, il vecchio conduttore resta obbligato solidalmente nei confronti del proprietario se il nuovo inquilino non adempie. Lo prevede l’articolo 36, comma 1, della legge n. 392/78. Ma la legge non regola il caso inverso, cioè quello in cui sia il cedente a essere moroso nel pagamento dei canoni maturati prima della cessione del contratto. La Corte di Cassazione aveva affermato (nella sentenza n. 10485/04) che il conduttore cessionario subentrato nel contratto di locazione doveva rispondere comunque verso il locatore ceduto delle obbligazioni non adempiute dal cedente, salva poi l’azione di rivalsa.
Il Tribunale di Milano è di diverso avviso e, con la sentenza n. 12507/2014, ha respinto la richiesta, avanzata dal locatore nei confronti del nuovo conduttore, di pagare i canoni non versati da chi gli ha ceduto l’azienda, insieme con il contratto di locazione.
I riferimenti normativi per risolvere la questione non sono forniti, oltre che dall’articolo 36 della legge n. 392/78, neanche dalla più generale disciplina dettata dagli articoli 1406 e seguenti del codice civile in tema di cessione del contratto, che prevede che ogni parte (in questo caso il conduttore cedente) possa sostituire a sé un terzo (il cessionario) nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive, sempre che queste non siano ancora state eseguite. Nel caso di cessione del contratto di locazione, il godimento del bene a fronte del quale sorge l’obbligazione di pagare il canone è già avvenuto, proprio perché l’ex conduttore cedente ha usufruito del bene oggetto del contratto. Il locatore ha dunque già adempiuto la propria prestazione, che pertanto ha esaurito i suoi effetti in un momento precedente al perfezionamento del contratto di cessione. Se è vero che il conduttore cessionario subentra nella medesima posizione del cedente, altrettanto vero è che tale principio deve compararsi «con la disposizione di cui all’articolo 1406 del codice civile che richiede, quale presupposto imprescindibile ai fini della configurabilità della successione a titolo particolare, una coppia di prestazioni e controprestazioni ancora da eseguire». E nel caso esaminato dal Tribunale di Milano, l’obbligazione del locatore è già eseguita.
Il giudice milanese non si discosta dal principio generale di piena validità della diversa volontà delle parti: nel caso esaminato, il cedente aveva contrattualmente assunto obbligo di manleva a favore del cessionario per ogni debito relativo al rapporto locativo precedente la cessione del contratto, compresi i canoni rimasti eventualmente arretrati.
Né va considerato il rilievo per cui al locatore sarebbe così impedito di agire nei confronti dell’unico conduttore dopo la cessione del contratto per ottenere la risoluzione per inadempimento: data la retroattività di questa declaratoria, il ragionamento posto a fondamento della sentenza in esame è convincente perché non esclude la possibilità per il locatore ceduto di citare in giudizio sia l’originario conduttore sia il cessionario attuale conduttore subentrato nel rapporto locatizio per ottenere, una volta accertata la morosità, lo scioglimento del rapporto locativo.
Il subentro del cessionario dell’azienda nel rapporto di locazione è una facoltà concessa al cedente e non un effetto automatico del trasferimento dell’azienda (sentenza n. 23087 del 30 ottobre 2014 della Cassazione), quindi ben vengano gli accordi tra le parti diretti a disciplinare anche i rapporti pregressi. L’originario conduttore, d’altro canto, è stato scelto dal locatore, quindi nessun rimprovero può essere mosso al cessionario che per nulla ha influito sull’inadempimento del suo dante causa.
La cessione del ramo d’azienda e dell’azienda trova la sua definizione nell’art 1221 del cod civ e si riferisce a qualsiasi operazione che, in virtù di una cessione contrattuale o una fusione, comporti il mutamento nella titolarità di una parte dell’azienda. Rientra nella cessione di ramo d’azienda, ad esempio, la vendita dell’azienda.
il codice civile non disciplina la cessione del ramo d’azienda di per sé, ma solamente la sorte dei contratti di lavoro con i dipendenti coinvolti nei trasferimenti dell’azienda o di parte di essa.
Definendo l’azienda come il complesso dei beni che l’imprenditore utilizza per esercitare la propria attività, per ramo d’azienda si intende quell’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
Dopo un’analisi della disciplina generale del trasferimento d’azienda, vedremo cosa comporta la cessione di ramo d’azienda e quali sono le sue principali caratteristiche e differenze con l’affitto del ramo d’azienda, esaminato nelle sue peculiarità, osservandone senza pretesa di esaustività, anche alcuni spetti di natura fiscale.
Una delle questioni di maggiore interesse è la sorte dei lavoratori di un’azienda interessata da una cessione di ramo d’azienda. L’articolo esamina il rapporto tra cessione dell’azienda e licenziamento dei dipendenti, in particolare la disciplina della cessione del ramo d’azienda con meno di 15 dipendenti e con più di 15 dipendenti
In via generale, il lavoratore ha diritto a mantenere in vita il proprio rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, non potendo subire alcun pregiudizio (diminuzione stipendio, licenziamento, demansionamento, ecc…) a seguito delle scelte dell’imprenditore cedente.
Il legislatore vuole evitare che la cessione del ramo d’azienda sia utilizzato come strumento per un impiego illegittimo del licenziamento dei dipendenti.
La normativa prevede un passaggio automatico dei rapporti di lavoro inerenti il ramo ceduto e preesistenti alla cessione del ramo d’azienda, dal vecchio al nuovo titolare del ramo d’azienda (e cioè il nuovo datore di lavoro) garantendo loro la prosecuzione senza interruzione.
Ma vi possono essere eccezioni.
Quando parliamo di azienda facciamo riferimento al complesso dei beni (beni mobili, immobili, crediti, ecc…) organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività economica
Fanno parte dell’azienda, ad esempio, gli immobili di proprietà dell’imprenditore, i macchinari, i conti correnti. Nell’azienda rientrano anche i beni immateriali, come i crediti e i diritti derivanti dai contratti ad esso riferibili, come ad esempio i contratti con i fornitori, con i clienti e con i dipendenti.
Il ramo d’azienda è una parte dell’azienda, che sia dotata di una autonomia organizzativa, economica e funzionalmente diretta alla produzione di beni e servizi.
Ciò a prescindere che l’impresa sia effettivamente attiva, o sia solo potenzialmente produttiva di beni o servizi.
Pertanto, non tutti i “frammenti” dell’azienda rientrano nella definizione di ramo d’azienda, che comprende solamente quei beni del complesso aziendale individuati dalla Cassazione (sentenza n. 8756/2014) nella loro funzione unitaria e strumentale come “ogni entità economica organizzata in maniera stabile che, in occasione del trasferimento, conservi la propria identità; il che presuppone però una preesistente realtà produttiva funzionalmente autonoma e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento”.
L’autonomia funzionale del ramo di azienda deve risultare non solo preesistente al trasferimento, ma non deve venir meno neanche successivamente. Quindi nella cessione di ramo d’azienda quest’ultimo deve, già da solo, essere idoneo allo svolgimento dell’attività d’impresa.
Si stabilisce il perimetro della cessione del ramo d’azienda: “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda.”
Parlando di cessione di ramo d’azienda, non bisogna incorrere nell’errore di confonderla con la vendita di singoli beni aziendali. Infatti, come abbiamo detto sopra, mentre il ramo d’azienda è caratterizzato dall’autonomia funzionale, ovvero da solo è idoneo all’attività d’impresa, il singolo bene venuto (ad esempio, un macchinario, un’attrezzatura), da solo non può dar vita ad alcuna attività.
In altre parole, il quid pluris del ramo d’azienda rispetto ai singoli beni aziendali, sta nel cosiddetto avviamento, ossia nel fatto che i beni siano tra loro organizzati in modo tale da potere consentire l’esercizio di una attività economica.
Per comprendere al meglio come distinguere cessione di ramo d’azienda e cessione di uno o più beni aziendali, si riporta un’esaustiva definizione fornita dalla corte di Cassazione in materia di cessione di ramo d’azienda, ovvero, “per ramo d’azienda, come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e (v. CGUE, sentenza 24 gennaio 2002, in C-51/00) consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo; il relativo accertamento presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c. che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto e comporta la mera sostituzione di uno dei soggetti contraenti, nonché il consenso del lavoratore ceduto” (ex multis, Cass., sent. n. 9361/2014).
L’azienda in quanto universalità di beni, può essere ceduta in tutto o in parte (c.d. cessione di ramo d’azienda), come un qualsiasi altro bene giuridico
I motivi che si celano dietro la vendita dell’azienda possono essere i più vari, derivanti da scelte dell’imprenditore.
La cessione del ramo d’azienda avviene tramite un apposito atto di cessione d’azienda, tra il soggetto detto cedente (e cioè l’imprenditore che trasferisce) ed il cessionario (chi acquista). Tipicamente, i trasferimenti d’azienda sono effettuati mediante contratti di compravendita, ma talvolta il termine è usato in senso ampio, che ricomprende anche l’affitto del ramo d’azienda.
Infatti, la cessione del ramo d’azienda può avvenire:
- a titolo definitivo: trasferendone la proprietà, mediante ad esempio un atto di vendita dell’azienda, un testamento, una donazione
- a titolo provvisorio: trasferendone il godimento, mediante il comodato o l’affitto del ramo d’azienda.
La normativa in materia di trasferimenti di azienda . non si applica ai casi di trasformazione di società; di conferimento di un’azienda individuale in società; di trasferimento del pacchetto azionario di maggioranza di una società e di modifica della denominazione sociale, in quanto non si verifica alcun mutamento soggettivo della titolarità dell’azienda o di un ramo di essa.
Nel caso di una cessione di ramo d’azienda con meno di 15 dipendenti, non è necessaria quella fase preliminare di informazione ed eventuale consultazione del sindacato, riserva nei casi in cui l’impresa cedente impieghi più di 15 lavoratori (nel caso di cessione di ramo d’azienda, la “soglia” dei 15 dipendenti deve riferirsi al personale di tutta l’azienda).
In questo secondo caso, è onere dell’imprenditore cedente e del cessionario inviare una comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima della cessione di azienda, alle rappresentanze sindacali unitarie delle unità produttive interessate o in mancanza, alle rappresentanze aziendali.
La comunicazione della cessione del ramo d’azienda che cedente e cessionario hanno l’onere di inoltrare alle rappresentanza sindacali, ha lo scopo di porle nelle migliori condizioni per garantire i diritti dei lavoratori nelle operazioni. Deve pertanto contenere:
- i motivi che hanno portato alla cessione d’azienda o alla cessione del ramo d’azienda,
- le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori,
- le eventuali misure da adottare nei confronti dei medesimi,
- la data della cessione.
In questo modo, si consente alle rappresentanze sindacali di fare valere gli interessi dei loro associati sin da prima che si sia conclusa la fase negoziale della cessione del ramo d’azienda.
In mancanza delle rappresentanze sindacali aziendali, la comunicazione andrà effettuata ai sindacati di categoria maggiormente rappresentativi o alle associazioni di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo di lavoro utilizzato nel ramo d’azienda oggetto di cessione.
Ricevuta la comunicazione, il sindacato può richiedere, entro 7 giorni, un esame congiunto con le parti.
Il mancato rispetto degli obblighi di comunicazione non inficia la validità dell’atto di cessione dell’azienda, ma configura un’ipotesi di condotta antisindacale.
La cessione di ramo d’azienda avviene attraverso l’atto di cessione d’azienda, ovvero un contratto tra cedente e cessionario.
A prescindere dallo schema contrattuale che si voglia dare alla cessione del ramo d’azienda, , -per le imprese soggette a registrazione- i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto.Quindi la forma scritta non è richiesta ai fini della validità dell’atto, ma solo per fini probatori. In altre parole, un atto di cessione dell’azienda è valido ed efficace tra le parti anche se concluso in forma orale, ma la prova della sua esistenza non può essere fornita.
Tuttavia, è richiesta la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, qualora sia richiesta dalla natura dei beni che compongono l’azienda (ad esempio beni immobili) o dalla natura dell’atto di cessione dell’azienda (ad esempio la donazione).
Se gli atti di cessione di ramo d’azienda vengono redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel Registro delle Imprese, entro trenta giorni dalla sottoscrizione. Tale adempimento viene assolto dal notaio o dall’avvocato che autentica la scrittura privata.
In seguito alla cessione di un ramo d’azienda, sul cedente grava il divieto di concorrenza, la cui mancata osservanza comporta una responsabilità contrattuale con la possibilità per il cessionario di risolvere il contratto.
Si prevede che colui il quale cede un’azienda, o un ramo di essa, deve astenersi, per i cinque anni successivi, dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. Lo stesso divieto, in caso di comodato o affitto di ramo d’azienda, grava sul proprietario o sul locatore, per la durata pattuita nel contratto di comodato o di affitto.
A maggior tutela dell’acquirente, il divieto in esame si estende anche agli eredi dell’alienante (in tal senso, Cass., sent. n. 1957/2014).
Il patto di non concorrenza può prevedere anche limiti più ampi, purché ciò non pregiudichi oltremodo l’alienante, impedendogli qualunque attività professionale.
In via generale, il cessionario subentra automaticamente in tutti i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda ceduta che non abbiano carattere strettamente personale
I crediti si ritengono ceduti automaticamente e qualora il debitore in buona fede paghi il suo debito al cedente, in luogo del cessionario, risulterà ugualmente liberato dalla sua obbligazione.
A seguito della cessione d’azienda i debiti aziendali anteriori alla cessione, purché risultanti dalle scritture contabili, gravano in solido sul cedente e sul cessionario.
Analogamente, in caso di cessione di ramo d’azienda, l’acquirente, pur in presenza di una contabilità unitaria, dei debiti pregressi risultanti dai libri contabili obbligatori, purché gli stessi siano relativi alla gestione del ramo d’azienda ceduto (ex multis, Cass., sent. n. 13319/2015).
Vediamo adesso cosa prevede il codice civile in materia di rapporti di lavoro nei casi di trasferimenti d’azienda.
In base al codice civile, la cessione del ramo d’azienda non costituisce, di per sé stessa, motivo legittimo di licenziamento. Al contrario, i rapporti di lavoro dei dipendenti proseguono con il nuovo datore di lavoro, individuato nel cessionario del ramo d’azienda.
La prosecuzione è automatica: non è richiesto che con la cessione del ramo d’azienda i dipendenti prestino il consenso ad essere impiegati sotto il nuovo imprenditore.
Il lavoratore conserva tutti i diritti che derivano dal rapporto pregresso. In particolare, il nuovo titolare è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’attività esercitata.
A seguito della cessione dell’azienda i debiti di lavoro (ad esempio gli obblighi retributivi e contributivi) gravano sia sul cedente che sul cessionario, i quali sono obbligati in solido verso il lavoratore, salva la possibilità del lavoratore di liberare il cedente.
Una delle domande più frequenti è quella relativa all’esistenza o meno di un collegamento tra cessione d’azienda e licenziamento dei dipendenti della stessa.
La risposta è contenuta nel codice civile, il quale, tra le altre cose, stabilisce in via generale che il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, ferma restando la facoltà di recedere dal rapporto di lavoro. Inoltre, il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può decidere di presentare le dimissioni.
Tale disposizione non si applica solo in ambito privato, ma bensì, la Cassazione ha affermato che “La disciplina del c.c. si applica anche in caso di passaggio di personale da ente pubblico a società di diritto privato, alla quale è stato attribuito l’esercizio di funzioni o servizi in precedenza esercitati direttamente dall’ente, a prescindere dalla preesistenza di un’azienda in senso tecnico e dalle modalità con le quali il trasferimento d’azienda è stato attuato, essendo ininfluente che il trasferimento sia avvenuto per atto negoziale o a seguito di provvedimento autoritativo” (Cass., sent. n. 23618/2018).
Se da una parte la cessione del ramo d’azienda non è di per sé motivo di licenziamento, dall’altra parte non si può escludere che il recesso sia comunque possibile per una diversa ragione giustificatrice. Ad esempio nel caso in cui il cessionario receda dal contratto di lavoro all’esito di un procedimento disciplinare avviato sotto la vecchia gestione del cedente.
La giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che tale facoltà attribuita al cedente non deve essere utilizzata con il fine di aggirare la normativa in materia di licenziamento e, nello specifico realizzando atti emulativi, atti in frode alla legge, oppure in violazione dei principi di correttezza e buona fede
I lavoratori ceduti hanno diritto di recedere per giusta causa dal contratto di lavoro entro tre mesi dalla cessione d’azienda, al verificarsi di una modifica(rilevante) delle condizioni di lavoro. Questo vuol dire che il mutamento delle condizioni di lavoro deve essere rilevante e sostanziale, comportando un peggioramento della situazione del lavoratore, ad esempio sotto l’aspetto retributivo o professionale.
La cessione del ramo d’azienda è talvolta collegata al processo di esternalizzazione (cd outsourcing) mediante il quale un’impresa cessa una parte del processo produttivo e la ”esternalizza”, generalmente mediante un contratto di appalto, affidandola ad un soggetto terzo.
Una variante della esternalizzazione è quella cd “intra moenia” che si ha quando il soggetto terzo, a cui è esternalizzata parte del processo produttivo, opera nel perimetro aziendale del cedente. La Cassazione individua, tra le possibili operazioni di esternalizzazione la “cessione di un segmento di azienda da un’impresa ad altra impresa, seguita dall’instaurazione di una nuova relazione contrattuale tra le stesse, con lo scopo di garantire la riacquisizione indiretta dell’attività precedentemente trasferita” (Cass. 17 aprile 2012, n. 5997).
In questo caso, la cessione del ramo d’azienda e la esternalizzazione intra moenia diventano due facce della stessa operazione, ove il terzo è sia cessionario che appaltatore.
Il codice civile stabilisce che nel caso di esternalizzazione intra moenia si applica l’art 29 comma 2 dlgs 276/2003, che prevede una responsabilità solidale tra cedente/appaltante e cessionario/appaltatore per i trattamenti retributivi, i contributi previdenziali ed i premi assicurativi dovuti per tutto il periodo di esecuzione del contratto di appalto ed entro due anni dalla sua cessazione.
In seguito alla duplice operazione tra contratto di appalto e cessione d’azienda i debiti nei confronti dei lavoratori trasferiti ed impiegati nell’appalto sono quindi doppiamente tutelati. La solidarietà tra cedente/appaltante e cessionario/appaltatore opera non solo sui crediti dei dipendenti esistenti fino al momento della cessione del ramo d’azienda, ma anche per quelli successivi, fino ai due anni successivi alla cessazione del contratto di appalto.
Nel caso in cui la cessione del ramo d’azienda riguardi imprese in crisi, ad esempio nei confronti delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio, ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, le tutele riconosciute ai lavoratori ceduti vengono limitate, in base a quanto stabilito dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Il comma 5 e 5 bis del citato art. 47 stabiliscono che “nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario” e non si applica la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti dei lavoratori pendenti al momento del trasferimento. Inoltre “il trattamento di fine rapporto è immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda”. In tali casi interviene però il fondo di garanzia
L’affitto di ramo d’azienda è un contratto con il quale il titolare dell’azienda concede ad un altro soggetto la disponibilità e il godimento del ramo d’azienda, dietro il pagamento di un canone, per un periodo convenuto.
Rientra pertanto tra i trasferimenti d’azienda a carattere temporaneo e non definitivo.
La disciplina applicabile all’affitto di ramo d’azienda è ricavabile dalle norme su:
- l’affitto di beni produttivi
- la cessione di azienda
- Tale ultima disposizione, rinviando all’articolo precedente, stabilisce che anche in caso di affitto di azienda, la stessa debba essere esercitata con il nome della ditta (cioè il nome commerciale dell’imprenditore) che la contraddistingue, senza modificare la destinazione economica e conservandone l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte.
L’affitto d’azienda presenta alcuni vantaggi sia per il locatore che per l’affittuario.
Il primo può evitare i costi ed i rischi relativi alla gestione diretta dei beni aziendali, limitandosi a ricevere un canone d’affitto. Il secondo ha la possibilità di intraprendere un’attività economica già “pronta” (come si è detto, il ramo d’azienda si caratterizza proprio per la sua attitudine a porre in essere, senz’altro, il processo produttivo) senza dover sostenere ingenti costi iniziali, pagando semplicemente il canone alle scadenze prefissate.
L’affittuario si assume l’obbligo di gestire il ramo d’azienda affittato in conformità della destinazione economica della cosa e dell’interesse della produzione, tanto che, in base al codice civile“se l’affittuario non destina al servizio della cosa i mezzi necessari per la gestione di essa, se non osserva le regole della buona tecnica, ovvero se muta stabilmente la destinazione economica della cosa” il locatore può chiedere la risoluzione del contratto.
Per quanto riguarda la tutela dei lavoratori, anche in caso di affitto d’azienda i dipendenti ricevono la tutela prevista dal codice civile
La suindicata regola prevede però due eccezioni:
- quando all’atto del trasferimento vi sia stata l’estinzione del rapporto di lavoro e solo in quel caso dei citati crediti ne risponderà unicamente il locatore d’azienda (v. Trib. Firenze, sent. 30 maggio 2011);
- quando in sede di conciliazione ex arte 410 e 411 cod. proc. civ., il lavoratore acconsenta alla liberazione dai debiti dell’ex datore di lavoro, facendole ricadere unicamente sull’affittuario.
L’affitto del ramo di azienda è istituto diverso dallalocazionedi immobili ad uso diverso da quello abitativo ( uso commerciale, industriale, artigianale eccetera). Se il primo ha per oggetto il ramo d’azienda, come definito nei paragrafi precedenti, la seconda ha per oggetto uno o più beni immobili aziendali, non giuridicamente qualificati dall’attitudine produttiva.
Per poter determinare se si tratta o meno di contratto di affitto d’azienda bisogna risalire alla volontà delle parti, se queste cioè hanno inteso stipulare realmente un contratto con oggetto il godimento di un complesso organizzato di beni (azienda) e non con oggetto un immobile o altri beni attraverso i quali l’affittuario avrebbe poi organizzato la sua azienda (in tal senso, Cass., sent. N. 3888/2020).
Oltre che al momento della sua scadenza naturale previsto dalle parti, il contratto di affitto d’azienda può essere sciolto per una delle cause indicate dalla normativa civilistica. In base al disposto dell’art. 1616 del codice civile., quando le parti non abbiano previsto un termine di durata del contratto di affitto d’azienda, ciascuna di esse ha la possibilità di recedere dal vincolo contrattuale, dopo aver dato all’altra parte un congruo preavviso.
Altra ipotesi di scioglimento del contratto è quella prevista dall’art. 1623 del codice civile“se, in conseguenza di una disposizione di legge, o di un provvedimento dell’autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio”.
Infine si ricorda la disposizione dell’art. 1626 codice civile. secondo cui “L’affitto si scioglie per l’interdizione, l’inabilitazione o l’insolvenza dell’affittuario salvo che al locatore sia prestata idonea garanzia per l’esatto adempimento degli obblighi dell’affittuario.”
Da un analisi generale della normativa e a seguito di alcune elaborazioni dottrinali, il concedente del ramo d’azienda deve consegnarlo in uno stato tale da poter servire all’uso pattuito . Qualora alla luce della stipula del contratto di affitto, non mantenga l’azienda funzionale, arrecherebbe un pregiudizio all’affittuario, che non potrebbe più usufruire per lo scopo prefissato dell’azienda oggetto di accordo.
Assume poi l’obbligo – ex art. 1621 cod. civ.- di eseguire le riparazioni straordinarie al bene ceduto.
Inoltre, anche sul concedente grava il divieto di concorrenza per tutta la durata del contratto di affitto
Anche sull’affittuario gravano una serie di obblighi in seguito alla stipula del contratto di affitto di azienda, oltre al pagamento del canone di affitto: la legge prevede che debba astenersi dal porre in essere condotte pregiudizievoli per l’azienda che gestisce. L’affittuario è tenuto a rispettare l’obbligo di condurre l’azienda sotto la ditta (il nome commerciale dell’imprenditore) che la contraddistingue, nonché l’obbligo di gestire l’azienda, senza modificare la sua destinazione economica.
L’affittuario deve poi conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti, occupandosi della manutenzione ordinaria, conservando altresì le normali dotazioni di scorte . Gli è di norma vietato di subaffittare o cedere a terzi l’affitto, senza il consenso del concedente, salvo che il contratto di affitto di ramo d’azienda preveda espressamente tale possibilità
Recentemente è intervenuta la Corte di Cassazione per chiarire alcuni aspetti di natura fiscale inerente ai canoni di locazione per l’affitto d’azienda o di ramo d’azienda. Infatti, sul tema è stato precisato, da un lato che per quanto riguarda le imposte sui redditi “i canoni d’affitto d’azienda non costituiscono reddito fondiario essendo questo legato alla titolarità di un diritto reale sul bene immobile censito in catasto al quale, per effetto di tale censimento, vengono attribuiti redditi presuntivi soggetti all’imposizione diretta, indipendentemente dalla loro effettiva percezione, mentre, invece, la fiscalità dei suddetti canoni è connessa alla conservazione o meno della qualifica di imprenditore del soggetto concedente, con la conseguenza che tali canoni integrano redditi diversi, ex art. 67, comma 1, lett. h), del d.P.R. n. 917 del 1986, nell’ipotesi di locazione dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale, ovvero redditi di impresa, nel caso di locazione di ramo d’azienda da parte dell’imprenditore individuale o di locazione d’azienda da parte di società commerciale”.(Cass., sent. n. 23851/2019).
Invece, in merito al versamento dell’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche) – come chiarito da Cass., sent. n. 29551/2018- saranno deducibili tutti i canoni corrisposti per l’affitto di azienda direttamente imputabili ad attività produttive di ricavi, anche se il contratto non è stato stipulato in forma scritta (perché è prevista tale forma solo a fini probatori e non per la validità del contratto).
Buona settiama a tutti da Barbara Mattei!